queste stanchezze sono in accumulo, da tempo: a loro non si trova riposo, quiete. “troppa luce, troppa gente, troppe voci, troppo tutto”, mi scrive s. il tempo libero è di faccende da sbrigare, burocrazie a volte (ed è peggio). quando riesco a svuotare un tempo e lasciarlo non riempito vedo – quasi graficamente, nella mia testa, come fossi il protagonista di un videogioco – i miei livelli di ansia che salgono, quelli di produttività che scendono. il tempo vuoto si riempie allora di questo osservare (osservarmi) quasi ossessivo e spesso colpevole: l’opposizione tenace a rendersi usabili, adatti, monetizzabili è sempre stata viscerale. e questo fa ancora più male, perché ci si rende conto di essere diventati i controllori di se stessi. non è una questione di disciplina (di cui la libertà è una forma, come ci ricordavano i CCCP di depressione caspica), ma di aver introiettato un modello di comportamento, la corsa verso il risultato, il fare e ancora di più l’aver fatto (prodotto), il cercare una qualche forma di successo (“canta che ti passa“). volere qualcosa e proiettare su quel qualcosa una possibile felicità: superato, per certi versi, il consumismo più banale (che desidera l’oggetto che ci darà la felicità, oggetto sempre diverso e nuovo ogni volta, felicità impossibile), resta questa ricerca di soddisfazione in un traguardo da tagliare, in qualcosa che si potrà dire di aver fatto. ed è sempre più difficile costruire un percorso di senso verso un futuro possibile, se ci guardiamo intorno, oggi. rallentare, cercare il vuoto, sottrarsi, dormire, spaesarsi: oggi sono atti rivoluzionari. a volte ci riescono, frammentati, individuali – più raramente (almeno un po’) collettivi. il ritmo poi ci riprende, ci ributta dentro. così, intanto, la contraddizione si approfondisce sui nostri corpi stanchi, sui percorsi sinaptici che costruiscono quelli che chiamiamo approssimativamente i nostri pensieri, lungo i nostri nervi logorati. e attraverso questi organi stanchi che mi compongono prende forma un altro interrogativo, che si insidia come dubbio nella percezione della realtà che mi sembra di avere intorno: forse il nostro rifugiarci nelle storie della letteratura e del cinema è perché ci sembra che nelle nostre vite non accada più nulla? ed è vero che non accade più nulla, in queste nostre vite sempre in corsa, sempre al lavoro? o forse, semplicemente, non accade quello che vorremo? ma che cosa vogliamo, allora?