“la sensazione che i risultati non giustifichino la fatica”, mi scriveva k. qualche giorno fa. abbiamo una conversazione continuativa ma frammentata, fatta di messaggi su signal, di mail che mescolano lavoro aiuto deviazioni, di chiamate mentre camminiamo intontiti – dal caldo dal traffico dall’essere sempre connessi – tra le strade di due città diverse della pianura padana. questa fatica che torna, queste distopiche stanchezze: noi sempre più al lavoro e sempre più stanchi, e intorno la distopia che prende la forma di realtà che prende la forma di guerra. aggiunge impotenza alla fatica. l’ansietta tenue che scorre sotto pelle si fa più solida, vibra i nervi, imbroglia i pensieri. addosso il bisogno di fuga, domato (ancora una volta: ma quanto ancora?) dalla disciplina che impone il devi al vuoi: immagino sentieri sull’appennino, ma guardo schermi. (tre solo qui, ora, intorno, per ragioni diverse). e le scadenze che cadono davanti all’improvviso e quindi sotto, che certe occasioni non le possovoglio perdere, anche se non so mai se riuscirò (accumulo:fallimenti). riprendo energia e ossigeno nel piccolo, in nuove complicità trovate, nel fare nonostante che a tratti si fa (nonostante) collettivo e aiuta. in un continuo spingere ad aprire, a espandere: che l’esistenza sa essere vasta ma così tanto, costante, tira a ridurla, a farla piccola. claustrofobia di pensiero e sensi che affannano per un di più che – come la vita normale – è un passo più in qua. espansione/contrazione come movimento cardiaco. risultati e fatica. materialità del mio ragionare situato: passa tutto dal corpo. ubiqua tensione a pluralità di vita. sospeso tra fatalismo determinista (“ciò che deve accadere accade”) e desideri che sanno farsi costitutivi, arti marziali contro i miei limiti.