moltiplico scritture inconcludenti per tenermi a galla, senza nemmeno essere sicuro di volerlo. leggo libri compulsivamente come meccanismo di protezione dal mondo, per neutralizzarlo, per capire perché mi fa paura, per tenere lontano un peso. risputo fuori frammenti scritti, come se la scaturigine di quest’ansia scrittoria non fossi io ma la scrittura stessa. io, canale dissestato attraverso cui queste parole sospese nel codice che ne permette la lettura cercano un percorso per dirsi. scarto forme narrative perché mi manca la pazienza, perché questa urgenza di scaricare ansie e insonnie spinge troppo forte per mediare con la creazione di personaggi, intrecci narrativi, mondi di finzione. poi, già ciò che vivo ogni giorno mi sembra una finzione, da quando apro gli occhi al mattino: la colazione mentre leggo la rassegna stampa, il lavoro, la spesa al supermercato. immersione digitale in cui il futuro tende a sparire e la macchina cognitiva prende uno spazio sempre più significativo, fino a dettare i ritmi del nostro pensare, del nostro agire, anche di questo scrivere. se siamo chiusi in un universo computazionale, come possiamo uscirne? come possiamo digitare, su tutte le tastiere che ci circondano, i comandi per chiudere questo programma? questo frammentarsi della scrittura, questo suo moltiplicarsi in una pluralità di spazi cerca uno sfogo, sì, ma allo stesso tempo frammenta l’individualità, mi fa domandare se davvero c’è un individuo all’origine di questo scrivere. uno o molteplicità. con l’ego che sarebbe comunque da far saltare. non andare a fondo nella scrittura narrativa (non è vero, non del tutto: l’ho fatto ed è anche andata male, in un modo del tutto imprevisto, comunque non bello) penso sia una forma di auto-boicottaggio, una risposta dispersiva e distruttiva al mio non essere geniale come avrei voluto. il che, forse, è pure stupido: il coraggio dell’imperfezione potrebbe essere qualcosa di grande. eppure le scritture private che frammento ai miei interlocutori toccano gangli nervosi dolenti, fanno effetto di uno specchio che aumenta la profondità e la nitidezza e permette di definire meglio quello che viviamo. almeno questi sono i commenti che ricevo. eppure. eppure c’è questo incombere dello scrivere, questo dolore che cerca sempre di tornare fuori e farsi sentire. a volte me ne libero, dimenticandolo. anestetizzandolo (e quante cose, in questa vita, possono essere anestesia). poi però, carsico, riaffiora, riprende il corso e ricomincia a connettere neuroni su tracce dismesse, disseccate, di nuovo inondandole. a quel punto il mio cervello schiva anche l’anestesia come se volesse imporre la consapevolezza che solo questo sentire è vero. come se fosse vero, poi. cedo a quest’illusione e saluto le forme variabili di ansia che mi fanno compagnia. “è come se tu non avessi pelle”, mi ha detto una volta m., “come se sentissi tutto a una soglia di sensibilità intollerabile”. le parole non sono precise (ecco: le parole non sono mai precise: possiamo usare altro? possiamo andare oltre?), ma l’idea è chiara. per me è un complimento, ho pensato. ma non tutti i giorni. e quindi moltiplico frammenti, anonimi, non consequenziali. forse come una specie di laboratorio, di officina: moltiplicare le scritture per moltiplicare le possibili vie d’uscita. “a volte salva, a volte fa male”. in ogni caso, non basta mai.