continuare a cercare un senso nel nulla. continuare per approssimazione. insistere, senza ragione, su una strada che nemmeno c’è: non c’è sotto i piedi, non c’è davanti per lo sguardo che cerca un orizzonte, non c’è nel possibile che tra i fallimenti cerco di immaginare. anche le stanchezze che coltivo sono sterili. come questa ossessione che mi dice che devo fare qualcosa di più, che devo creare. eppure il quotidiano non basta (cucinare, vivere, insegnare, costruire relazioni, scrivere – e il semplice fatto di esistere, mio malgrado). eppure quello che faccio non è mai all’altezza (un’altezza arbitraria, mia, che comunque non potrei mai raggiungere perché non andrebbe comunque bene). dico sempre, scherzando, a chi mi fa domande ‘serie’: il mio obiettivo è scomparire. in momenti come questo non mi sembra di crederci davvero (e forse dovrei, di più) anche se davvero penso di esserne convinto. e allora cosa guida questa ostinazione? un cummingsiano essere ossessionati dall’idea del fare (e fregarsene cordialmente poco delle cose fatte)? forse: ma cummings era cummings. e io no (nel senso che non sono nemmeno sicuro di essere io, oltretutto). nemmeno più quel fallire meglio, nemmeno l’idea di giocare con tutto come unica possibilità, anche con la disperazione, per tirarla fuori dai suoi limiti. a volte, semplicemente, solo niente.