#3. (avvicinare l’urgenza al silenzio)

sarebbe bello che le parole che sono stanche – perché abusate maltrattate svuotate – potessero ritirarsi, andare in letargo: che gli umani non le usino più, almeno per un po’. ma non saremmo noi a decidere, non la collettività né i capi di governo, sarebbero le parole stesse, come se avessero direttamente accesso a uno stato meta-cognitivo e percepissero l’uso che facciamo di loro. esauste, si metterebbero in pausa, una lunga convalescenza per recuperare sensi e significati, per ritrovare una nuova posizione nel mondo, che magari riesca a spostarle oltre il paradigma della rappresentazione, oltre all’arbitrarietà del linguaggio, verso un realismo concreto, che le faccia agire su di noi, sulla realtà.

all’orale, semplicemente non riusciremmo più a pronunciarle, quelle parole che si sono messe in malattia. come quando abbiamo la sensazione di avere una parola sulla punta della lingua ma non riusciamo proprio a tirarla fuori: all’inizio me l’immagino così, poi quel pizzicore metaforico pian piano scompare fino a che non abbiamo più nemmeno la percezione che c’è qualcosa che ci sfugge, una parola di cui abbiamo perso l’uso, che ormai, per noi, non è mai esistita. per le parole scritte, invece, indugeremmo sulle tastiere dei nostri schermi tattili, polpastrelli frenetici che non riescono a capire cosa digitare, il correttore automatico sempre più scarno di suggerimenti, magari con un guizzo una parola ancora ci sembra di ricordarla, allora muoviamo le dita sulle lettere che la compongono ma non esce nulla sullo schermo, uno spazio bianco, nemmeno troppo grande.

immagino il flusso di twitter che pian piano diventa silenzioso, sempre meno parole, magari solo qualche congiunzione, qualche articolo, sostantivi e verbi innocui o poco utilizzati. azzittiti i giornali con i loro titoli meschini che cercano clic, gli opinionisti per tutte le stagioni che finalmente riescono a dire qualcosa di intelligente: colonne bianche, solo la punteggiatura a creare una forma melodica di assenza. il ciarlare televisivo ridotto a pause vuote e singhiozzi di suoni incompiuti, come guardare lo schermo con il volume azzerato, con le bocche dei personaggi che si muovono sempre meno fino a restare immobili, svuotato di senso il fracasso commerciale che le sostiene, frammenti di vacuità in immagini super hd.

poi forse, anche le immagini potrebbero decidere di averne abbastanza: i tramonti e i piatti appena serviti, con i loro colori saturi impossibili, la loro nitidezza a-fotografica, il loro conformismo pseudo-estetico: svaniti nel grigio, indistinti, instagram un flusso di nebbia, in costante aggiornamento, inutilità. telefoni che non registrano più gli scatti digitali, nauseati pure loro, assenza di immagini come opportunità di cura dello sguardo, silenzio anche per gli occhi. petabyte e petabyte di codice che, autocosciente e stanco, si modifica in scale di grigi, scale su cui non scende o non sale nessuno, solo la quiete di questo eccesso di rumoreimmagine finalmente placato.

(una forma di sogno o di auspicio, forse. che a essere stanco delle parole e delle immagini sono io, eppure alle parole ritorno, mentre cerco altre forme per avvicinare l’urgenza al silenzio)