vacillo: non tengo il passo. il senso di fatica che sento avviluppare il mio cervello tocca il resto del mio corpo ma anche la mia mente estesa: sento la fatica di schermi sempre illuminati, sotto notifiche incessanti, di informazioni che arrivano alle mie orecchie e ai miei occhi tramite canali onnipresenti, iper-veloci, saturanti. la nostra genetica non tiene il passo di questo flusso, l’infosfera ci domina e confonde. gli schermi dei nostri smartphone sono palinsesti che vengono riscritti a una velocità sempre più parossistica, senza però lasciare traccia di nulla: nessun sedimento, nessuna elaborazione, nessuna conoscenza. il gesto è automatico, l’imperativo è economico. non abbiamo scelto noi di aderire a questo flusso, di esserne vittime attive, partecipi, ma sentiamo che non possiamo più sottrarci. vetrina, vendita. affrontiamo tecnologie avanzatissime con il cervello di un neanderthal, mi sembra scrivesse liu cixin in uno dei volumi della sua trilogia. non credo sarà il nostro divenire cyborg, così come inteso dai guru della silicon valley, a salvarci. in ogni caso arriverebbe troppo tardi e forse non c’è nemmeno più niente da salvare. l’imperativo della velocità, della partecipazione, dell’essere sempre al passo sul mercato in cui hanno trasformato la vita è interiorizzato: pena l’esclusione, la marginalità, una difficoltà di sopravvivenza che è sempre economica ed esistenziale allo stesso tempo. la pandemia ha in parte mandato in frantumi il mondo costruito per decenni da chi, a capo dell’economia, imponeva la neolingua neoliberale come strumento di occultamento della realtà. il covid-19 ha fatto riemergere la realtà in maniera brutale, per tanti che avevano smesso di percepirla. ma ci siamo accorti di non avere più una lingua per descriverla, per raccontarla, la nostra ormai ridotta a brandelli inservibili dal prevalere, su tutto, del discorso economico. intanto, intorno, la realtà continua a fare irruzione, breccia: le guerre, la crisi climatica, quella economica. noi restiamo disorientati, impossibilitati.
è come se fosse in corso un attacco DDoS* contro le nostre strutture psichiche, contro le nostre capacità cognitive. e su questa linea di attacco possiamo identificare il punto di contatto in cui si intrecciano il personale e il pubblico, la pervasività e la velocità delle tecnologie digitali e il dispiegamento delle politiche neoliberali in tutta la loro ferocia, l’incombere della catastrofe (ambientale, bellica) e la nostra impotenza. l’obiettivo di un attacco DDos, in informatica, è mettere fuori uso un sito, un server, un data centre, sopraffacendolo con un numero elevatissimo di richieste di accesso. si tratta di un attacco volontario, mirato e organizzato. guerra cibernetica. non c’è bisogno di adottare un paradigma computazionale (che vede l’intero universo e quindi anche noi umani sottoposti alle regole di funzionamento dei computer) per capire che qualcosa di simile è in atto, da tempo, contro di noi. immersi in un flusso di contenuti, che continuano a moltiplicarsi, iper-veloci, con l’unico obiettivo dell’accumulazione di profitti lontano da noi, dalle nostre vite. questa spoliazione agisce su due piani: quello propriamente economico, per cui la ricchezza è estratta dal nostro vivere quotidiano, e quello del tempo, cioè della nostra capacità di elaborare, capire, costruirci, che viene a mancare. a questo attacco partecipano tantissimi attori, il sistema dei media, la politica, i social network commerciali: i loro sforzi non sono necessariamente coordinati (come sarebbe per un attacco DDoS informatico) ma l’obiettivo è lo stesso ed è raggiunto quotidianamente, con effetti devastanti sul lungo periodo: la saturazione completa delle nostra capacità cognitive, delle nostre strutture psichiche. come un server che, bersagliato da troppe richieste, collassa e diventa inaccessibile, così noi stessi non riusciamo a tenere il passo, cediamo, dimentichiamo, abbandoniamo, collassiamo: psichicamente, fisicamente. come sarebbe se un messaggio di errore apparisse sul nostro viso come succede sullo schermo per le macchine digitali quando non funzionano più? forse i segni della stanchezza non bastano più, questo flusso ci toglie empatia, ci rende sempre più difficile identificarci con le persone che abbiamo intorno, condividere il loro sentire. forse non ci resta che provare tutte le forme possibili di diserzione: renderci irraggiungibili, indisponibili, refrattari. ma queste, in fondo, sono ancora e sempre solo parole, anche se scritte in un tempo sottratto al lavoro, ai doveri (una piccola forma di diserzione, forse? che forse pagherò in affanno, nelle prossime ore, per questo tempo che ho scelto di rendere indisponibile).