#23. (delle soglie che abito)

le mie notti, nelle ultime settimane, sembrano un susseguirsi di istanti ipnagogici che si dilatano nel tempo buio della camera, delle ore indefinite che dovrebbero portarmi al mattino – e mi ci portano, anche se mi fanno dubitare fino all’ultimo di arrivarci, mentre sono immerso nella silenziosa oscurità di un primo piano, di poco scostato da una stretta strada del centro. in queste dilatazioni, i pensieri del giorno che si chiude, quelli della testa che macina e tira il corpo a non prendere sonno, si mescolano alle prime visioni oniriche, creando confusioni percettive e influenze reciproche. spostamenti. sto ragionando lucidamente dentro a un sogno? oppure le mie riflessioni consce sono allucinate da (ir)realtà elaborate dal mio cervello mentre gli occhi si muovono veloci? dentro e fuori e fuori e dentro: eppure è tutto dentro la mia testa. a volte penso che anche la percezione del buio, delle coperte e dei cuscini lo sia. a volte apro gli occhi per trovare solo nero, altre bagliori lunari o elettrici riverberano nella stanza, filtrati dalla tenda leggera. nel sonno non sono nemmeno sicuro di essere io, a volte. di esserci.

nei miei giorni, invece, cambiano le percezioni, certo. ma soprattutto quando la stanchezza è trascinata dall’irregolarità del riposo, mi affaccio su altre soglie che fanno più paura perché sembrano più reali. di notte posso sempre ricacciare indietro l’orrore come incubo, allontanarlo da me anche se è il mio cervello ad averlo generato. di giorno è più difficile perché so di essere sveglio, per quanto uno possa saperlo davvero. e questi avvicinamenti serrano lo stomaco, accelerano i battiti, la testa si muove a scatti come a portarsi verso fonti di ossigeno, come a cercare un appiglio per non scivolare di là da questa soglia che, invisibile, si è fatta presente ai sensi. siamo essere complessi, con una pluralità all’interno che ci condiziona (pensiamo, solo, ai batteri) e siamo connessi con quello che il confine fragile della nostra pelle ci dice essere fuori di noi. soglie fatte di stanchezze e ansie, di fatiche e di esaurimenti. ma anche di non orizzonti: come se il corpo (che il cervello è corpo anche lui e certi segnali sono forse più chiari quando vengono da altri organi), tramite queste soglie che appaiono all’improvviso, cercasse delle scorciatoie per un altro luogo (penso alberi quiete montagne, ma non so cosa pensa lui, anche se immagino una forma molto più brutale di disconnessione). queste soglie da veglia invitano a una frattura nella percezione della realtà, del presente, del sé. attirano e spaventano, si fanno sentire concreto della fragilità di quella che chiamiamo stabilità, normalità. come se la mia testa potesse smettere di funzionare come ha fatto finora. sentire questo possibile toglie fiato e pavimento sotto i piedi, fa girare la testa, come se vicino, invisibile ma potenziale, ci fosse qualcosa di terrificante. e ogni volta mi allontano più che posso, anche senza muovere un passo.

poi, ancora, ci sono le soglie di tensione del quotidiano: il continuare a fare e il bisogno di accasciarsi, questa accelerazione insensata individuale e sociale e il sano desiderio di fermarsi, i ruoli sociali e la necessità di interpretarli (quel minimo, almeno, per sostenere relazioni contestuali e per salvarsi un po’ la testa con la disciplina). de si violentes fatigues, dell’assenza di un divenire politico dell’épuisement quotidien, delle parole di mark fisher che continuano a toccare tutti questi nodi, del continuare a cercare nuove forme, nonostante tutto, in questa ostinazione al fallire che odora forte di vita.