#24. (una diretta radio fino alla fine del mondo)

il dolore dei passi. degli sguardi. della voglia che non c’è. per disciplina tenersi dritti quando l’unica cosa che si vorrebbe è piegarsi, lasciarsi andare, perdersi. le lettere retroilluminate di questa tastiera, una notte d’estate nel luogo in cui sono nato e che mi fa estraneo ogni volta di più, nel dolore. che sì, l’unica cosa che posso fare è scappare via ma fa comunque male. l’eco cupo dei calla in cuffia, una notte che avrebbe potuto farsi rapire e invece no. citazioni che cerco e non trovo. le mie dita sui tasti, come se avesse un senso. sfogare di voce e musica, voce che parla per approssimazione e (in)sofferenza, musica che invece ci porterebbe lontano. e queste parole pensate per una lettura, che non saranno lette. circondato da una forma di disagio che ormai ho messo via, almeno in questi modi, così palesemente evidenti (e tristi). non esiste l’età adulta, esiste sempre e solo il bisogno di avere qualcuno che ti guarda, ti apprezza, ti ammira. che per crescere è necessario individuarsi, per non restare sopraffatto, per andare avanti. mentre invece avrebbe senso solo dissipare i confini, allentare la separazione che ci dice che la pelle è la frontiera del nostro esistere. superare le nostre percezioni, disfarsi di questi limiti contingenti sarebbe un passo verso un’idea possibile di al di là, un di là che sia una percezione diversa del di qua, dell’ovvio davanti al possibile. manca la radio come forma di espressione senza margini, fuori dagli stereotipi delle necessità commerciali, dei tempi da rispettare, del tagliare corto perché se no nessuno ti ascolta. e invece. eppure continuiamo a lavorare per sottrazione, a restituire la nostra complessità, imprescindibile. e i frammenti, e il dolore, e l’ostinarsi contro ogni evidenza a esserci, anche quando va tutto bene e ti dici che varrebbe la pena lasciar andare, perché “se l’intensità resta comunque viva, e uno non è un artista?”. gli autori che sento più vicini sono quasi tutti suicidi. e riempire di parole e suoni la notte, fosse anche per una persona sola che ti intercetta per caso e si sente a casa: questo vale, il resto è esibizione di sé, per obbligo, per necessità, per incapacità. fare meno, aprire crepe, essere erba infestante. nei margini, nelle zone d’ombra, nelle cose che si spaccano: solo lì ha senso cercare una prospettiva per un domani (che si sente comunque già estinto). essere anonimi, fare del bene in maniera casuale, costruire una voce di voci che si faccia narrare collettivo, mandare affanculo il proprio io (fuck your ego, come diceva un muro di berlino ormai venti anni fa), che l’io non serve a niente, mai. farsi plurali, farsi invisibili, colpire.